Le bellissime poesie di Pablo Neruda dedicate ai suoi cani emozionano ancora a distanza di decenni: ecco quali sono le più evocative.

«La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina». Forse questi versi non saranno emblematici del rapporto che Neruda aveva con i suoi cani, ma sono significativi per comprendere la concezione che il poeta aveva della poesia stessa. Considerato una delle più importanti figure della letteratura latino-americana del Novecento, Neruda ha scritto tantissimi componimenti sull’amore per gli animali. Ma quali sono i più belli e interessanti? Ecco qualche informazione riguardo alle poesie di Neruda sugli animali.
L’amore per i cani, una costante della vita e della poetica di Pablo Neruda
Neruda nelle sue opere reinventa la storia del popolo dell’America latina, creando miti e leggende, ma l’argomento principale della sua poetica resta l’amore, declinato su aspetti diversi.

Il poeta cileno e premio Nobel per la letteratura confessa il proprio amore, rispetto e ammirazione per tutti gli animali in numerosi scritti. Pablo Neruda amava i cani tanto quanto il mare e la libertà. Sono questi i temi di due bellissime poesie intitolate “Un cane è morto” e “Ode al cane”, ma anche di un poema intitolato “Ahi quante volte volli avere coda”. Questi versi, commoventi e sublimi, sono considerate delle vere e proprie lettere d’amore ai quattro zampe.
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Nel corso della sua vita, Neruda ha condiviso con i suoi animali viaggi, dolori, gioie e persino l’esilio. Tra i quattro zampe che lo hanno accompagnato nei momenti più importanti ci sono Calbuco, Cutaca, Donegal, Panda, Niebla, Chu-Thu e Nyon. Neruda scrive che degli animali amava non solo il carattere e la bontà, ma anche la libertà. Il poeta non accettava infatti che i suoi cani avessero collari o catene. Sono tantissimi gli aneddoti che circolano sulla vita del poeta cileno. Secondo alcune fonti, ad esempio, si racconta che quando Neruda si sposò con la cantante e scrittrice Matilde Urrutia, unico testimone al matrimonio fu il suo cane Nyon.

Un altro aneddoto racconta che quando Neruda stava per essere trasportato in ospedale poco prima della morte il suo cane Chu-Thu gli si avvicinò per ricevere un’ultima carezza. Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, nacque a Parral, un comune del Cile, nel luglio del 1904 e morì a Santiago del Cile nel settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe del generale Augusto Pinochet nel 1973. Poeta, diplomatico e politico cileno, insignito nel 1971 del premio Nobel per la letteratura, Neruda è stato definito dal letterato Gabriel García Márquez come «il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua». Harold Bloom lo ha considerato tra gli scrittori più rappresentativi del Canone Occidentale.
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Neruda è ricordato non solo per il suo impegno letterario ma anche per aver ricoperto incarichi di primo piano, diplomatici e politici, come quello di senatore. Nel 1970 è stato candidato a presidente del Cile. La sua poetica spazia dal realismo al surrealismo, dalla lirica intimista a quella civile e politica. Tra i suoi principali ispiratori e modelli vi sono Francisco de Quevedo, Walt Whitman e Arthur Rimbaud. Nei suoi scritti, Neruda esprime un concetto romantico e drammatico della vita, amante delle piccole cose e della sua terra e in rivolta con le convenzioni e l’ordine costituito.
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Nelle sue dichiarazioni d’amore nei confronti della natura e della vita, il poeta cileno parla del proprio amore per gli animali. Le sue convinzioni riguardo l’esistenza, l’umanità e la natura compaiono nelle varie Odi elementari, come l’Ode al gatto, l’Ode al pomodoro e l’Ode al carciofo.
Le poesie di Neruda sugli animali
Secondo Neruda, la poesia è un atto di pace e amore, ma le circostanze costringono a combattere l’autorità che vuole distruggere questa pace. Il dolore della perdita di un amico a quattro zampe è oggetto di un poema particolarmente bello di Neruda che così recita:
Ode al cane
Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda senza parlare
e i suoi occhi sono due richieste umide,
due fiamme liquide che interrogano
e io non rispondo, non rispondo perché non so,
non posso dir nulla.
In campo aperto andiamo uomo e cane.
Brillano le foglie come se qualcuno le avesse baciate a una a una,
sorgono dal suolo tutte le arance a collocare piccoli planetari
su alberi rotondi come la notte, e verdi,
e noi, uomo e cane, andiamo a fiutare il mondo, a scuotere il trifoglio,
nella campagna cilena, fra le limpide dita di settembre.
Il cane si ferma, insegue le api, salta l’acqua trepida,
ascolta lontanissimi latrati, orina sopra un sasso,
e mi porta la punta del suo muso, a me, come un regalo.
E’ la sua freschezza affettuosa, la comunicazione del suo affetto,
e proprio lì mi chiese con i suoi due occhi,
perchè e’ giorno, perchè verrà la notte, perchè la primavera
non portò nella sua canestra nulla per i cani randagi, tranne inutili fiori, fiori, fiori e fiori.
E così m’interroga il cane
e io non rispondo.
Andiamo uomo e cane uniti dal mattino verde,
dall’incitante solitudine vuota nella quale solo noi esistiamo,
questa unità fra cane con rugiada e il poeta del bosco,
perchè non esiste l’uccello nascosto,
ne’ il fiore segreto, ma solo trilli e profumi per i due compagni:
un mondo inumidito dalle distillazioni della notte,
una galleria verde e poi un gran prato,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che procede,
e l’antica amicizia,
la felicità d’essere cane e d’essere uomo trasformata in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe e una coda
con rugiada.
Bestiario di Pablo Neruda
Potessi parlare con uccelli,
con ostriche e con lucertole,
con le volpi di Selva Oscura,
con gli esemplari pinguini,
se mi capissero le pecore,
i languidi cani lanosi,
i cavalli da barroccino,
se discorressi con i gatti,
se m’ascoltassero le galline!
Non m’è mai occorso di parlare
con animali eleganti:
non ho curiosità alcuna
per l’opinione delle vespe,
né delle cavalle da corsa:
s’arrangino pure volando,
vincano vestiti correndo!
Voglio parlare con le mosche,
con la cagna che ora ha partorito
e chiacchierare coi serpenti.
Quando ebbi piedi per camminare
in notti triple, già trascorse,
andai dietro ai cani notturni,
a quegli squallidi viandanti
che trottano e vanno in silenzio
con gran fretta in nessun posto
e li seguii per molte ore,
essi sospettavano di me,
ah, poveri cani insensati,
e persero l’occasione
di narrare le loro tristezze,
di correre con pena e coda
per le vie dei fantasmi (…)
I ragni sono rovinati
da pagine stupidissime
di esasperanti semplicisti:
li vedono con occhi da mosca,
li descrivono divoratori,
carnali, infedeli, viziosi.
Secondo me questo giudizio
si ritorce contro i giudici:
il ragno è un vero ingegnere,
un divino orologiaio,
per una mosca di più o di meno
lo detestino pure gli idioti;
io voglio discorrere col ragno:
voglio che m’intessa una stella.
Tanto m’interessano le pulci
che mi lascio pungere per ore,
sono perfette, antiche, sanscrite,
sono macchine implacabili.
Non pungono per mangiare,
ma pungono per saltare,
sono le saltatrici dell’orbe,
le delicate, le acrobate
del circo più dolce e profondo:
mi galoppino sulla pelle,
diffondano le loro emozioni,
si divertano col mio sanque,
ma qualcuno me le presenti,
voglio conoscerle davvicino,
voglio sapere come attenermi.
Non ho potuto conoscere
i ruminanti intimamente:
certo io sono un ruminante,
non so perché non m’intendano.
Devo trattare questo tema
pascolando con vacche e buoi,
pianificando con i tori.
Conoscerò in qualche maniera
tante cose intestinali
che sono nascoste dentro
come passioni clandestine.
Che pensano i porci dell’alba?
Non cantano ma la reggono
con i grandi corpi rosati,
con le piccole zampe sode.
I porci sostengono l’alba.
Gli uccelli mangiano la notte.
Ed il mondo al primo mattino
è deserto: dormono i ragni,
gli uomini, i cani e il vento,
i porci grugniscono: è l’alba.
Voglio discorrere con i porci.
Dolci, sonore, rauche rane,
sempre ho voluto farmi rana,
sempre ho amato lo stagno, le foglie
sottili come filamenti,
mondo verde dei nasturzi
con le rane padrone del cielo…
In questo mondo che corre e tace
voglio più comunicazioni,
altri linguaggi, altri segni ,
voglio conoscere questo mondo(…)
Voglio parlare con molte cose
e non me, ne andrò dal pianeta
senza sapere cosa ho cercato,
senza accertare questo fatto,
e non mi bastano le persone,
debbo andare molto più lontano
e andare molto più vicino.
Per questo, signori, io vado
a discorrere con un cavallo,
e mi perdoni la poetessa
e il professore mi perdoni,
ho la settimana occupata,
debbo ascoltare tutto a fiotti.
Come si chiamava quel gatto?
Queste sono alcuni dei più bei versi di Neruda. (di Elisabetta Guglielmi)